Il dottor Euro e i 40 milioni per la Città della speranza

PADOVA – Sulle fiancate sono dipinti un bimbo stilizzato col sole al posto della testa, tre case colorate, due montagne e la scritta «Fondazione Istituto di ricerca pediatrica Città della speranza». Sul cofano è impresso un codice a barre QR: lo inquadri con uno smartphone e sul display ti si apre la pagina internet cittadellasperanza.org. Sotto i finestrini posteriori campeggia un verbo che nelle intenzioni del guidatore avrebbe dovuto spiegare tutto: «Io sostengo». Già, ma va’ a spiegarle, certe cose, a chi ha la vista annebbiata dalla cattiveria e dal pregiudizio. Così, sabato scorso, sotto il tergicristallo del Maggiolino bianco nuovo di zecca parcheggiato in piazza Eremitani a Padova, Stefano Bellon s’è trovato questo biglietto scritto in fretta e furia con la biro: «Che vergogna viaggiare in maggiolone acquistato col denaro dei cittadini firmato un papà». Eppure riesce a sorriderne: «L’auto è mia, immatricolata a febbraio, l’ho pagata 25.000 euro. Pensavo d’essere stato chiaro: “Io sostengo”… Sottinteso: la Città della speranza. E dire che ho speso altri 500 euro per farmi incollare quegli adesivi sulla carrozzeria». Omnia munda mundis, e il dottor Stefano Bellon, medico di famiglia che nella città del Santo assiste 1.200 mutuati, è un puro, e un duro, abituato a confrontarsi con i tumori dei bambini, la sofferenza, la morte, figurarsi se si lascia impressionare dalla stupidità. In effetti potrebbe chiamarsi dottor Euro. È un autentico fuoriclasse nel fund raising, cioè la raccolta di fondi da parte di organizzazioni non profit. In 18 anni, da quando esiste la Città della speranza e lui ne rappresenta il cardine, è riuscito a tirar su oltre 30 milioni di euro, a farsi dare altri 10 milioni di euro dalla Fondazione Cassa di risparmio di Padova e Rovigo, a diventare un primatista veneto nella campagna del 5 per mille (oltre 700.000 euro l’anno), a inventarsi Il gusto per la ricerca che in otto edizioni ha raccolto 1.278.805 euro, a conseguire due record entrati nel Guinness dei primati grazie a uno stuolo di atleti che hanno pagato per poter partecipare all’avventura. Il tutto senza percepire stipendi o rimborsi, sia detto a beneficio dei papà idioti che vergano fogli volanti per strada. La paga morale il dottor Bellon l’avrà, tutta intera e in un colpo solo, il 9 maggio, quando il presidente della Repubblica verrà a Padova per inaugurare il «suo» capolavoro: la Torre di ricerca. È un grattacielo di 11 piani, 20.000 metri quadrati di superficie, costruito nell’area Cnr (Consiglio nazionale delle ricerche). Nella sua struttura esteriore, l’edificio spiega molto dell’idea che ci sta dietro. Ne è autore l’architetto Paolo Portoghesi, il quale, contagiato dall’entusiasmo del medico di base, è stato ben felice di regalargli il progetto. I primi sei piani ruotano di 5 gradi l’uno sull’altro in senso antiorario, i rimanenti in senso orario. L’immagine finale ricorda sia la doppia elica del Dna sia un angelo con le ali socchiuse a protezione dei bambini. Il grattacielo, costruito in tre anni, è costato 30 milioni di euro, ma il valore commerciale è stimato in almeno 45 milioni, «perché siamo bravissimi a ottenere gli sconti e a costringere le imprese a lavorare un pochino gratis per noi». Dal 1° ottobre sarà la sede della Fondazione Istituto di ricerca pediatrica Città della speranza. Bellon, che ne è il direttore generale, coordinerà le attività scientifiche di 350 ricercatori provenienti da tutto il mondo e scelti in base al merito. Qui verranno ospitati i laboratori dei dipartimenti di pediatria e di scienze oncologiche chirurgiche dell’Università di Padova. «Sarà dei nostri Paolo De Coppi, lo scienziato e chirurgo di Conegliano, attualmente primario all’ospedale del bambino Great Ormond Street di Londra, diventato celebre nel 2007 per aver scoperto che si possono estrarre cellule staminali dal liquido amniotico senza sacrificare gli embrioni umani. E probabilmente lavorerà con noi anche la virologa di fama internazionale Ilaria Capua, cui si deve la pubblicazione della sequenza genetica del virus responsabile dell’influenza aviaria». Bellon, 52 anni, ex azzurro che ha vinto 18 campionati nazionali di nuoto, riesce a occuparsi della Città della speranza nonostante come medico di base sia impegnato dalle 9 alle 13 in ambulatorio e dalle 14 alle 17 nelle visite a domicilio. E questo sarebbe niente. Deve anche accudire una figlia diciottenne che soffre di epilessia. «Stamane è al liceo scientifico, impegnata nel compito in classe di matematica. Da due anni non ha ricadute, è tornata persino a sciare. Ma c’è stato un periodo in cui per tre mesi ha avuto bisogno di un cordone sanitario, guardata a vista 24 ore su 24. È stato quello il momento in cui più mi è servito il mio motto nella lotta ai tumori infantili: mai mollare». Perché ha fatto il medico? «Dovrei risponderle: perché lo era mio padre. In realtà la motivazione non è stata quella. Sentivo il bisogno di mettermi a disposizione degli altri, ecco». Suo padre era medico ospedaliero? «No, condotto. Come me. Ho ereditato una parte dei suoi pazienti. Si chiamava Antonio. Lavorava 24 ore su 24, sette giorni su sette, 365 giorni l’anno. Non ricordo d’aver mai fatto una vacanza con lui. Anche quando andavamo al mare a Jesolo, arrivava alla sera da Padova e ripartiva all’alba per farsi trovare in ambulatorio». Com’è nata la Città della speranza? «Per iniziativa di un privato, Franco Masello, un imprenditore vicentino del ramo marmi. All’epoca, 1994, era amministratore delegato della Deroma, un’azienda di Malo, leader mondiale nei vasi in terracotta. Suo nipote Massimo morì a 8 anni di leucemia acuta mentre aspettava il trapianto di midollo in pediatria a Padova. Allora per questi piccoli malati si poteva fare ben poco, persino la loro sistemazione in ospedale era precaria. Masello protestò col primario, il professor Luigi Zanesco. “Non ci sono soldi”, si sentì rispondere. “Fasso mi”, replicò lui. Riunì le 10-12 fornaci che fornivano la Deroma e a ognuna chiese un contributo minimo di 10 milioni di lire. Raccolse i primi 250 milioni. Altri 130 li trovò il luminare fra imprenditori amici. E con quei quattrini nacque la Fondazione Città della speranza». E poi? «Bisognava edificarla, questa Città della speranza. Masello coinvolse l’ingegner Gaetano Meneghello, fratello dello scrittore Luigi, l’autore di Libera nos a Malo. “Dobbiamo costruire un ospedale per i bambini malati di cancro”, gli disse. Meneghello mise a disposizione l’architetto Giuseppe Clemente, che lavorava nel suo studio. Bussarono alle porte delle imprese della zona. Molte decisero di partecipare a costo zero. E così sorse la clinica di oncoematologia pediatrica, con una spesa di 12 miliardi di lire. Oggi i 26 posti letto, pur importanti, sono diventati un’inezia rispetto alla ricerca scientifica finanziata finora dalla fondazione con 25 milioni di euro». Per questo serviva la Torre di ricerca? «Esatto. Pochi sanno che già ora le diagnosi di tutte le leucemie e di tutti i linfomi Hodgkin e non Hodgkin in età pediatrica scoperti in Italia vengono eseguite a Padova. Non solo: siamo il centro di diagnosi e terapia anche per tutti i sarcomi e i tumori rari che colpiscono i bambini in Europa. La Città della speranza s’è accollata i costi di gestione, 3 milioni annui. Solo per il trasporto dei campioni da tutta la penisola fino a Padova sborsiamo 50.000 euro l’anno. Paghiamo persino i pasti per il nostro personale, 21 dipendenti più 6 contrattisti a progetto che lavorano in ospedale. Ci aggiunga i reagenti chimici, le altre spese di laboratorio e di gestione, le tasse…». Le tasse? «Certo. Abbiamo dovuto presentare un interpello all’Agenzia delle entrate per ottenere la riduzione dal 20 al 10 per cento dell’Iva su tutte queste attività che regaliamo all’Azienda ospedaliera di Padova. Quando Annamaria De’ Claricini, una pediatra friulana emigrata a Milano e affetta da una malattia ematologica dell’anziano, nel 2006 venne a sapere di questa abnormità, decise di lasciarci il 90 per cento dei suoi beni, 4,5 milioni di euro, vincolando l’eredità alla ricerca pediatrica. È stata la molla che ci ha spinti a costruire la Torre che sarà inaugurata dal capo dello Stato». Che cosa dirà quel giorno a Giorgio Napolitano? «Che il lavoro dei ricercatori restituisce vita alle generazioni future. Mi sembra il messaggio migliore, adesso che il Nordest non è più la locomotiva d’Italia». Lei da chi è pagato? «Da me stesso. La fondazione non ha mai riconosciuto nulla a nessuno, a parte il direttore generale e due segretarie. Per raccogliere i 3 milioni di euro annui che sostengono le nostre attività non spendiamo mai più del 3 per cento. Il 90 per cento delle offerte vengono dai privati. A Natale incassiamo 70.000 euro impacchettando i giocattoli negli ipermercati. Altri 40.000 regalando una pergamena, invece delle bomboniere, agli invitati che partecipano a matrimoni e battesimi». Poi c’è il Guinness dei primati. «L’iniziativa s’intitola 24H for children. Finora ci ha fruttato 110.000 euro d’iscrizioni. Nel 2010 abbiamo organizzato una staffetta di nuoto della durata di 24 ore con 5.028 partecipanti, battendo il record di un college femminile sudafricano che era arrivato a 3.941. Nel 2011 altra staffetta di 24 ore con 4.531 podisti che si sono dati il cambio nei 100 metri su una pista in Prato della Valle, superando i 3.807 che avevano fatto la stessa cosa in Estonia. Quest’anno, il 22 e 23 giugno, sempre in Prato della Valle, faremo 12 ore di corsa e 12 ore di nuoto insieme per entrare per la terza e quarta volta nel Guinness World Records». Poi c’è Il gusto per la ricerca. «Ho corteggiato per mesi Massimiliano Alajmo, chef tristellato Michelin delle Calandre di Rubano, e alla fine l’ho convinto. Adesso ogni anno organizziamo un pranzo con 8 o 12 fra i cuochi più blasonati d’Europa. I grandi li abbiamo avuti tutti: da Michel Troisgros a Roger Vergé, da Sirio Maccioni a Gianfranco Vissani, da Fulvio Pierangelini a Heinz Beck, da Annie Feolde a Massimo Bottura. I commensali non pagano mai meno di 500 euro a testa, ma nel 2006, al San Pietro di Positano, la quota minima è stata di 1.250 euro». Lei è bravissimo a raccogliere fondi, ma non si vergogna a fare la questua? «No, perché qui non va perso nulla, c’è trasparenza assoluta. Lei vuol sapere dov’è finito il suo euro? Viene a Padova e lo vede. Devo ammettere che non è sempre facile. Quando nel 1993 organizzai la prima partita del cuore, andai a chiedere un contributo alle aziende che erano reclamizzate ai bordi dello stadio Appiani di Padova. Molte mi risposero: “Che c’importa? Tanto i nostri cartelloni pubblicitari sugli spalti li abbiamo già”. Ah sì? Due giorni prima dell’incontro di calcio mi sono arrampicato fin lassù e glieli ho coperti uno per uno con i sacchi neri della spazzatura». Non si ferma proprio davanti a niente. «Approfitto della statura: sono alto 1 metro e 98. Le vede le telecamere che controllano il cantiere della Torre di ricerca? Le ho montate io con l’aiuto di un altro volontario. Non mi tiro indietro né quando ci sono da appendere gli striscioni promozionali né quando ci sono da allestire i gazebo in occasione degli eventi». Chi maneggia quattrini è sospettato di interessi personali. Non la spaventa? «Sì, tanto. Lo dico sempre ai miei ragazzi: ricordatevi che, per ogni amico trascinato dalla nostra parte, ci facciamo due nemici. Ma si va avanti lo stesso». Quanti bambini vengono ricoverati ogni anno nella vostra clinica? «In media vediamo 150 nuovi casi, il 25-35 per cento dei quali provenienti da altre regioni italiane e dall’estero. Fino ai primi anni Settanta scampavano alle leucemie solo 10 bambini su 100. Oggi, fatta la media di tutte le neoplasie infantili, siamo a una percentuale di sopravvivenza del 75-85 per cento a cinque anni dalla diagnosi. Ma io voglio arrivare a salvarli tutti». «I peggiori sono i tumori cerebrali con metastasi. Lì siamo fermi a 40 anni fa, i nostri piccoli pazienti li perdiamo tutti. E poi ci sono le leucemie fulminanti, che spesso non ti lasciano nemmeno il tempo di fare la diagnosi. Quando con la chemioterapia e il trapianto di midollo regrediscono, poi sono in agguato le ricadute. La sfida è questa: debellare la malattia residua, raggiungere la matematica certezza che il cancro non si ripresenterà. Sarò contento solo quando riempiremo due treni speciali molto più lunghi di quelli che nel 2005 abbiamo organizzato per portare in udienza da Benedetto XVI gli ex pazienti passati in questi anni dall’oncologia pediatrica e guariti. Erano ben 3.300, molti già grandi, sposati e con figli». Che cosa capiscono i bambini della loro malattia? «Posso dirle quello che ci ho capito io. Anche nella condizione più tragica, non perdono mai la caratteristica di essere bambini. Vomitano ma giocano. Nel 2004 ho organizzato per loro un concerto con Claudio Baglioni. Madri e infermiere in deliquio. I bambini no, hanno continuato a disegnare. I bambini non mollano mai. Un giorno ne ho visto uno scappare dalla clinica. Ha rigurgitato l’anima in giardino. Subito dopo ha ridato la mano a suo padre, dicendogli: “Papà, torniamo dentro”. Comprende adesso da chi ho imparato?».stefano.lorenzetto@ilgiornale.it

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