Siblings, i fratelli dei bambini malati e la loro sofferenza

La questione dei siblings, i fratelli e le sorelle dei bambini ammalati è uno dei temi emergenti nel sostegno della famiglia del paziente pediatrico. Una sofferenza, la loro, che comincia a uscire dall’ombra. E che si può gestire

di TINA SIMONIELLO

QUANDO IL CANCRO irrompe in famiglia, soprattutto se colpisce pesante perché colpisce un bambino, tutto diventa secondario. A fuoco c’è il figlio ammalato e tutto il resto entra nell’ombra, finisce in uno sfondo, fuori fuoco. Anche gli altri figli, i siblings come gli inglesi chiamano i fratelli dei bambini ammalati o affetti da disabilità.

Travolti dalla malattia. Si tratta di bambini e ragazzi adulti che sono bambini anche loro, e anche loro vengono travolti dalla malattia, che li cambia rispetto agli altri coetanei e rispetto a loro stessi come erano prima. Una condizione che vivono naturalmente anche i fratelli e le sorelle di bambini colpiti dal cancro: “I siblings presentano forti tratti di aderenza alle richieste dell’ambiente, sono eccessivamente responsabilizzati, con tratti adulti” spiega Stefania Caviglia, psicologa e psicoterapeuta dell’Unità operativa di Psicologia clinica dell’Ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma, che ha in corso progetti sia di studio che ludici destinati proprio ai siblings. “Nella nostra esperienza – continua la psicologa – registriamo vissuti di tristezza e di paura, questo certamente. Ma anche di senso di abbandono: i genitori devono occuparsi di altro, non possono fare altrimenti. E di gelosia. Gli adulti di casa sono quasi mai in casa, presi da terapie, visite, controlli….Nella esperienza dei siblings è ricorrente l’espressione: ‘tu ce la puoi fare, noi dobbiamo occuparci di lui ora’. La  gelosia è normale e frequentemente diventa rabbia”.

Le emozioni difficili. In uno studio inglese pubblicato di recente su Clinical Child Psychology and Psychiatry, uno dei pochi scientifici condotto sui siblings in oncologia pediatrica, psicologi clinici e neuropsichiatri infantili hanno indagato le emozioni di ragazzi e ragazze di 12-17 anni, fratelli e sorelle di giovani pazienti oncologici più o meno loro coetanei che al momento dello studio erano in fase di remissione.

La diagnosi è uno shock. Al momento della diagnosi prevalgono lo shock e la paura. “È  stato un pugno nello stomaco, che rendeva impossibile anche piangere”, raccontano i ragazzi, oppure “ero terrorizzato, sapevo che chi aveva il cancro poteva morire”. Col tempo lo spavento diventa tristezza (quando le ho visto perdere i capelli mi si è spezzato il cuore), senso di colpa e di impotenza (Perché lui? Perché non io?) e, appunto, anche gelosia e rabbia (lui si faceva fare montagne e montagne e montagne di regali. E  anche: ero davvero arrabbiato quando i miei genitori non erano qui).  “Il problema della rabbia c’è se non viene espressa. La rabbia dei siblings va accolta dai genitori, perché non esprimerla fa sentire isolati. Il bambino o il ragazzo con un fratello ammalato non dovrebbe temere che la madre e il padre siano delusi da lui, l’espressione di ogni suo sentimento andrebbe favorita” riprende Caviglia. Che consiglia agli adulti di “creare, sempre quando è possibile, spazi di divertimento condiviso da tutti i fratelli, quelli che stanno bene e quello malato. Anche i siblings hanno bisogno di leggerezza”.

Metterli al corrente. E non delegare. Cosa ha a che vedere col cancro la leggerezza? Molte famiglie proprio per non appesantire gli altri figli evitano di dire come stanno davvero le cose. O ritardano, rimandano…. “Un errore, a partire dalla diagnosi le cose vanno dette” mette in chiaro l’esperta. E sono i genitori a doverlo fare, senza delegare nessuno, quando si sentono pronti e dopo aver trovato una modalità di comunicazione che sia unanime. Naturalmente nel rispetto della capacità di comprendere, dell’età di chi ascolta. Se è un bambino la comunicazione sarà semplice, concreta. Perché andiamo spesso in ospedale, cosa andiamo a fare, le procedure, le visite, sono tutte informazioni che vanno date senza eccedere in tecnicismi, raccontando più che spiegando. Con gli adolescenti è possibile un’astrazione, i contenuti vanno articolati e si può entrare più nello specifico della patologia e del percorso che comporta”.

Relazioni rafforzate. Il cancro porta con sé emozioni difficili. Ma non solo quelle, o non solo quelle per sempre. Nello studio inglese tutti i ragazzi dichiarano che l’esperienza di malattia ha reso più forte il legame col fratello malato (siamo come migliori amici, siamo più vicini, più intimi ora) e molti che sono diventate più intense le relazioni in famiglia e con gli amici. Tutti i partecipanti hanno riferito che l’incontro con la malattia ha aumentato le loro capacità di resilienza e ha cambiato la loro prospettiva e gli obiettivi futuri. Molti che il contatto col tumore li ha resi più empatici e più responsabili. Il che non è un vantaggio, in genere. “Il cancro di un bambino è un trauma che non si cancella mai” conclude Caviglia. “Rimane e segna per sempre tutti i componenti della famiglia, questo sia chiaro. La voglia di tutti, quando l’esperienza si risolve con una guarigione (il che succede spessissimo, per alcuni tumori del sangue la sopravvivenza supera il 90 per cento, ndr) è generalmente di non parlarne, e sempre di riprendere per quanto possibile la vita normale. È giusto così. Ma è difficile se durante il tempo della malattia non si è elaborato quanto è accaduto”. Per un un bambino o un ragazzo l’elaborazione è cosa complessa, “non lo è se vengono sostenuti i genitori, e attraverso  di loro i siblings. Questa recente prospettiva di presa in carico della famiglia del bambino malato sta cominciando ad essere un punto fermo dell’oncologia pediatrica e in genere della pediatria”.

repubblica.it  11.1.17

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