PICCOLI PAZIENTI CRESCONO. Ma come?

 Bambini dopo il tumore: adulti sani, non malati per sempre
Nonostante i problemi, con la giusta alleanza terapeutica saranno ragazzi con una marcia in più

 
MILANO – «E vissero felici e contenti». Non è sempre così, neppure dopo aver sconfitto draghi e streghe cattive. I giovani adulti sopravvissuti a un tumore infantile, secondo alcune ricerche, si pr ono ancora poca cura della propria salute e fanno più fatica dei loro coetanei a trovare una posizione sociale, un buon lavoro, un amore duraturo. Colpa degli strascichi di terapie abbastanza pesanti da aver salvato loro la vita, colpa, a volte, di un trauma mai superato e di un sistema sanitario distratto. Gli specialisti italiani, però vogliono vedere il bicchiere mezzo pieno: inutile negare le difficoltà fisiche e psicologiche, ma nella maggior parte dei casi i ragazzi guariti affrontano la vita con un’energia fuori del comune. A patto che dietro ci sia un’alleanza di ferro fra paziente, familiari e curanti.

IL MAXI STUDIO – Per sapere come può andare avanti l’esistenza di un bambino malato di tumore quando diventa adulto, è stato finanziato dal National Cancer Institute il progetto Childhood Cancer Survivor Study, che si propone di seguire sul lungo periodo decine di migliaia di ragazzi e giovani adulti guariti dopo malattie oncologiche di vario tipo. Periodicamente, si tracciano dei bilanci: come stanno questi ragazzi cresciuti? Di cosa si ammalano? Fanno i controlli dovuti? Lavorano, hanno figli?

DIFFICOLTÀ NELLA VITA – L’ultimo aggiornamento è apparso sul Journal of the National Cancer Insitute e riguarda 954 persone guarite da un neuroblastoma. Secondo gli autori, medici del Sainte-Justine Hospital di Montreal, nonostante la guarigione, rispetto ai loro fratelli «sani» hanno meno probabilità di sposarsi e di avere un lavoro ad alto reddito, mentre hanno un rischio otto volte maggiore di soffrire di malattie croniche di tipo neurologico, ocrino o muscoloscheletrico.

«ALLERGICI» AI CONTROLLI – Altri dati sono stati presentati all’ultima edizione del meeting mondiale di oncologia Asco, tenutasi a Orlando, Florida, lo scorso mese di giugno. Molti ex-pazienti sono più esposti all’evenienza di un secondo tumore, eppure, proprio le persone più a rischio, perché sottoposte nell’infanzia a terapia radiante di una certa intensità, non si sottopongono agli screening raccomandati, affermano gli esperti dell’Hospital for Sick Children di Toronto. Fanno la colonscopia in poco più di 11 su cento, un esame della cute in 26,7 su cento e una mammografia in 46,3 su cento. Molto più costanti, invece, gli ex malati che sono meno a rischio di secondi tumori, che anzi si presentano più puntuali della popolazione generale all’appuntamento con la mammografia (67 per cento contro il 58) e con il pap test (82 per cento contro il 70).

NON SONO MALATI PER SEMPRE – «Si tratta di considerazioni utili per imparare a proteggere meglio i nostri ragazzi» commenta Giorgio Dini, direttore del dipartimento di ematologia e oncologia pediatrica dell’ospedale Gaslini di Genova e presidente dell’Associazione italiana di ematologia e oncologia pediatrica (Aieop). Dini, che su Sportello Cancro dialoga con gli utenti attraverso un forum sui tumori dell’età pediatrica precisa: «I controlli sono necessari ma non vogliamo far diventare i guariti dei «malati per sempre». Anzi, il nostro progetto è far diventare i bambini malati adulti sani». Com’è possibile, allora, fare in modo che i ragazzi che escono da un reparto di oncoematologia pediatrica siano liberi di sentirsi finalmente guariti ma non siano abbandonati?

PRIMO: NIENTE GIRI DI PAROLE – Lo sottolineano i medici che tutti i giorni sono accanto ai bambini in corsia: quando la malattia è vinta si deve usare la parola «guarito». E cosa voglia dire lo spiega la dichiarazione di Erice, un documento internazionale discusso e condiviso da pediatri, infermieri, epidemiologi, oncologi, familiari, ex-pazienti di tutto il mondo: «I bambini che sono stati curati per un tumore possono essere considerati guariti quando la possibilità che essi muoiano a causa della malattia iniziale non sia più grande di quella dei loro coetanei di morire per qualsiasi altra causa». A seconda del tipo di malattia, cioè, si parla di un intervallo di tempo che va dai due ai 10 anni trascorsi senza recidive dal momento della diagnosi.

SECONDO: CHIAREZZA SUI RISCHI – Esiste un rischio aumentato di secondi tumori e di disturbi collegati alle terapie e alla malattia trascorsa. Spiega Giorgio Dini: «Un secondo tumore si verifica nel 5-10 per cento dei casi nei 15 anni dalla guarigione. Non sappiamo ancora perché: sono soggetti predisposti? È l’uso prolungato dei farmaci e della radioterapia? Però quello che io dico ai pazienti e ai familiari sin dalla diagnosi è: da questa malattia si può guarire, ci possono essere degli effetti tardivi che dovranno essere noti fin da adesso per essere pronti ad affrontarli». Pian piano le cure si raffinano e diventano meno aggressive. Momcilo Jankovic, referente del day hospital di ematologia pediatrica del San Gerardo di Monza, espone alcuni numeri: «Rispetto agli anni ‘70 si è migliorati molto nel limitare la tossicità delle terapie. Ad esempio, la radioterapia nei leucemici non si fa quasi più (meno del 10 per cento dei casi, un tempo erano il 70)». E poi bisogna considerare qual era i rischio originario: «La radioterapia craniale, ad esempio, aumenta il rischio di un secondo tumore cerebrale di 40 volte – prosegue Jankovic –, significa che circa un paziente su 100 lo svilupperà. Ma trent’anni fa 70-80 bambini su cento erano destinati a ricadere per la malattia».

TERZO: ESSERCI – La particolare storia clinica di un ex malato richiede una sorveglianza particolare, come succede a tante persone con predisposizioni a patologie come diabete, malattie cardiache o del fegato. «Serve dare un’informazione capillare, fornire documentazione precisa, che serva per il medico di famiglia e per tutti gli specialisti che seguiranno quella persona». A questo servono gli «ambulatori dei guariti» attivati in vari centri Aieop: pediatri, ematologi, oncologi, trapiantologi, sono lì per fare da punto di riferimento anche a chi, magari, non viene neppure più per i controlli. «Ieri ad esempio – racconta Dini – ha chiamato una signora per il figlio di 32 anni, trapiantato 30 anni fa per un neuroblastoma. Da tre o quattro anni non fa controlli, è impegnato, lavora molto…ora ha problemi al fegato e gli hanno consigliato una biopsia epatica. E’ spaventato. Ci siamo sentiti per telefono, abbiamo fatto una chiacchierata, l’abbiamo indirizzato all’internista per adulti che è già informato de suo percorso. E si è tranquillizzato. Abbiamo curato dei bambini che ora sono adulti. È la gioia più grande».

QUARTO: GUARDARE AVANTI – Un altro dato proveniente dal Childhood Cancer Survivor Study parla delle sofferenze emotive. Se confrontati con i loro fratelli cresciuti senza flebo e senza radioterapia, i sopravvissuti a un tumore infantile mostrano più spesso segni di stress post traumatico, l’insieme di disturbi che capitano, tanto per int ersi, a chi vive una condizione di guerra o un cataclisma. Ne soffrono nove ragazzi su cento contro due su cento fra i loro fratelli. Verrebbe da pensare che forse la notizia è che 91 su cento riescono comunque a diventare adulti sereni. Momcilo Jankovic pare d’accordo: «Certo che esistono lo stress e il trauma, e chi ne soffre deve essere assistito. Ma sono minori rispetto a ciò che di sorprendente si vede osservando queste persone nella vita reale, nel lavoro, nel rapporto con gli altri. Chi ha passato una malattia potenzialmente mortale sviluppa in molti casi la cosiddetta resilienza, una visione della vita più positiva. Anche per questo vale la pena fare lo sforzo di definire lo stato di “guarito”: non solo un’etichetta, ma l’affermazione di una realtà che si riflette sulla vita professionale, sulle assicurazioni, le assunzioni di lavoro, e via dicendo. Le condizioni sociali dei malati dipendono anche da noi medici».

UNO SU 600 – Dei bambini che oggi ricevono una diagnosi di tumore, otto su dieci guariranno. Basta guardarsi attorno, ricorda Dini: «Una volta la gente non amava dire che era stata malata o sapere di qualcuno che aveva avuto un tumore. Oggi, fra coloro che ci circondano, una persona su 600 è un guarito da un tumore giovanile. Sono le persone che sbucano dal passato e ci mandano le foto di nozze, della laurea, ci invitano ai battesimi dei figli. È questo il messaggio da lanciare oggi a chi si ammala».

Donatella Barus – Fondazione Veronesi

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