Una rete per curare i tumori rari

È pronto per la conferenza Stato-regioni il documento per l’istituzione di una Rete nazionale dei tumori rari, circa 200 patologie oncologiche che insieme rappresentano il 20-25% di tutte le neoplasie

di TINA SIMONELLO

Sono circa 200, eterogenei, diversi tra loro per sede, per organo, per appartato. Sono solidi o del sangue, degli adulti e pediatrici. E sono un problema di salute pubblica. Perché se singolarmente un tumore si dice raro quando ha un’incidenza inferiore ai 6 casi ogni 100mila l’anno, nel loro complesso i tumori rari rappresentano il 20-25% delle neoplasie: grosso modo un quarto del totale. Per rispondere ai bisogni dei pazienti, di quelli che finiscono in questo quarto, è pronto per la conferenza Stato-Regioni uno schema di intesa per l’istituzione di una Rete nazionale dedicata ai tumori rari.

Le ragioni di una rete. “I tumori rari sono in sostanza malattie rare, con specifiche problematiche. È importante che si crei una rete nazionale per queste patologie in stretto collegamento con i sistemi regionali. Abbiamo una rete professionale per i tumori rari solidi dell’adulto: oncologi specialisti in contatto diretto tra loro. Ma, per fare un vero salto di qualità, e anche di quantità, occorre ora una rete strutturata, finanziata in modo adeguato, che preveda un riconoscimento delle prestazioni in rete, dei consulti a distanza, un riconoscimento del tempo medico”, dice Paolo G. Casali, direttore della struttura complessa di Oncologia medica 2, Istituto Nazionale Tumori di Milano, associato di Oncologia medica all’Università del capoluogo lombardo e membro del Gruppo tecnico sui tumori rari istituito presso il Ministero della Salute già dal 2013.

Sopravvivenza più bassa, cosa significa? Oggi a convivere con una diagnosi di tumore raro nel nostro paese sono circa 900mila persone, che possono contare su una sopravvivenza del 55% a 5 anni, inferiore di 13 punti percentuali a quella rilevata per le patologie oncologiche frequenti, che è del 68% (dati Aiom-Airtum, I numeri del cancro, 2016). Una sopravvivenza che peraltro, a un anno dalla diagnosi, diminuisce più marcatamente di quella dei tumori comuni: un dato che stando allo stesso testo dello schema di intesa ‘è consistente con l’idea che i trattamenti per i tumori rari sono meno efficaci di quelli per i tumori più comuni’. “Ma non bisogna confondere le percentuali con lo specifico caso singolo”, tiene a sottolineare Casali: “Le diagnosi di tumore, in questo caso di tumore raro, sono diversissime l’una dall’altra: abbiamo forme rare che sono guaribili quanto o più delle forme comuni. Basti pensare ai grandi progressi dell’oncologia pediatrica negli anni 70-80. I pediatrici sono tutti tumori rari, ma la sopravvivenza in questo campo ha fatto grandissimi passi in avanti in pochi decenni. Nel campo delle forme rare si stanno facendo progressi nell’uso dei farmaci a bersaglio molecolare o dell’immunoterapia”.

La domanda del paziente: dove vado? Tuttavia la rarità implica criticità. “Per queste patologie – riprende l’esperto, che è anche coordinatore della Joint Action dell’Unione europea sui tumori rari – c’è meno expertise, meno competenza sul territorio, la distribuzione della conoscenza è meno capillare. Il vero problema del paziente dopo la diagnosi è rispondere alla domanda ‘dove vado?’. Con una rete che garantisse accesi diffusi sul territorio sarebbe finalmente il sistema sanitario a indicargli il percorso, a indirizzarlo al centro accreditato per la sua patologia che risponda meglio ai suoi bisogni. La rarità – riprende Casali – implica anche più difficoltà nella ricerca, perché si fa più fatica ad allestire studi clinici con pochi casi a disposizione. Una rete favorirebbe anche questo, consentirebbe studi su casistiche più numerose”.

Obiettivi, nodi e telemedicina.  Ecco, appunto, cosa potrà favorire la rete? O per dirla in altri termini: quali sono gli obiettivi della Rete nazionale dei tumori rari così come è stata pensata? In sintesi, il primo obiettivo è dare risposta ai bisogni del paziente, creando sul territorio accessi diffusi e accreditati dalle regioni. Il secondo: potenziare la collaborazione tra le istituzioni (università, ospedali, Irccs…). Poi, ottimizzare gli investimenti delle regioni. Quindi aumentare la capacità di informare il paziente e la sua famiglia. Infine, sostenere innovazione e ricerca. I centri, definiti i nodi della rete, il cui coordinamento sarà a cura di Agenas, l’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali, saranno o user o provider, e comunicheranno tramite telemedicina. I provider, scelti in base alle competenze funzionali e a seconda delle patologie, fornirebbero teleconsultazioni cliniche e patologiche ai primi, gli user. Per preservare un buon grado di flessibilità sono previste tre reti professionali di provider: una per i tumori pediatrici, che rappresentano l’uno% di tutti i nuovi casi di tumore, una per i tumori ematologi, il 5%, e una per i tumori solidi dell’adulto, che sono il 15%.

Là dove c’è esperienza. “I tumori rari vanno trattati dove c’è esperienza, perché un sarcoma non è come un tumore frequente: sono altri numeri”, sottolinea Casali: “È importante allora che alcune fasi del percorso terapeutico siano centralizzare: la diagnosi patologica, che è un momento cruciale, il trattamento chirurgico nel caso di diversi tumori solidi, la decisione clinica strategica per il percorso del paziente. Altri aspetti invece si possono affrontare vicino a casa propria. In questo nuovo schema, le regioni dovranno supportare adeguatamente i centri provider, il cui lavoro aumenterà notevolmente. Il lavoro in rete richiede risorse aggiuntive, il tempo medico aggiuntivo va finanziato: spero siano previsti meccanismi di finanziamento realmente efficaci. In passato non si è riusciti a farlo, ma oggi – conclude l’esperto – se la Conferenza Stato-Regioni approverà il nuovo progetto, ci contiamo davvero”.

repubblica.it     10.4.17

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